L'ORTO
L’orto in cui avvenne il primo miracolo della nostra Madonna (circa 1488) faceva parte di quella gran quantità di orti e prati che da secoli si stendevano sulla riva destra del Tevere. A parte talune zone paludose, sembra che fino al V secolo a.C. vi si coltivassero in quantità farro e orzo, mentre a partire dal IV secolo (e nel vicino Monteverde Nuovo, fino alla metà del sec. XX!) anche frumento, vite e olivo, nonché i più comuni ortaggi che però - almeno stando a quanto dicono alcune cronache - erano di ben modesta qualità. L’area in cui si trova oggi la chiesa era chiamata prata Mutia ossia “prati di Muzio (Scevola)” e di cui parleremo tra poco. A breve distanza, più o meno dove oggi c’è la stazione ferroviaria di Trastevere, si stendevano gli Orti di Cesare, gli stessi che il divo Giulio lasciò poi in eredità al popolo romano. A seguire - dove oggi c’è piazzale della Radio - i prata Quintia, i prati di Lucio Quinzio Cincinnato, dove l’insigne generale si ritirò per condurre vita puramente agreste.
Anticamente, quella parte di Roma che si stendeva trans Tiberim (al di là del Tevere), pur essendo un avamposto irrinunciabile per la difesa della città, era una zona prettamente rurale e scarsamente popolata: i pochi contadini ivi esistenti erano, peraltro, anche i primi a dover fronteggiare in armi le incursioni etrusche. In questa zona pedemontana - comprendente anche le odierne piazze Mastai e San Francesco a Ripa - si hanno notizie e tracce di un insediamento di campagna, il pagus Ianiculensis, esistente già in epoca monarchica. Colle e villaggio, in epoca arcaica, erano soggetti proprio alla città etrusca di Veio, ma fu sotto il re Anco Marzio che venne costruito il ponte Sublicio (pochi metri più a nord di quello odierno) ed iniziò di fatto il controllo romano su quell’avamposto. La riforma di Servio Tullio istituì poi le 4 tribù urbane e 17 rustiche: i piccoli possessi oltretevere, indicati come septem pagi (sette villaggi), costituirono la tribù Romilia, dal nome della gens che vi dominava.
Ed eccoci a ricordare alcuni eventi - dove storia e leggenda si fondono - che connotarono di gloria quel lembo trasteverino di cui stiamo trattando. Nell’anno 509 a.C. era stato esiliato da Roma l’ultimo sovrano d’origine etrusca, quel Tarquinio tanto dispotico da essersi meritato l’epiteto di Superbo. Questi tentò con ogni mezzo di recuperare il trono perduto, sicché un giorno si rivolse a Porsenna - lucumone della città di Chiusi - affinché gli fornisse l’appoggio militare necessario ad un’azione di forza. Il re etrusco si mise allora personalmente alla testa di un’armata e, superato il nevralgico colle del Gianicolo, pose l’accampamento nei pressi del ponte Sublicio, dando esca ad un’incredibile sequenza di fatti eroici, ormai purtroppo confinati nella polvere dei libri scolastici di gioventù.
Ecco allora Publio Orazio detto Coclite (in quanto cieco da un occhio), discendente di quei famosi Orazi che si batterono contro i Curiazi, che da solo impegnò il combattimento sul ponte - assalito di sorpresa dagli etruschi - fino a che i compagni alle sue spalle riuscirono a demolirne la struttura in legno e a impedire così la possibile invasione della città.
Ecco Clelia, facente parte d’un gruppo di ragazze - tutte figlie di eminenti personaggi - che Porsenna aveva preteso in ostaggio a garanzia delle trattative. Ma Clelia era anch’essa dotata di indomita tempra, sicché si mise a capo delle sue compagne e dopo molte peripezie riuscì a ritornare entro il territorio amico. I romani erano però gente tutta d’un pezzo e, per non perdere l’onore, restituirono a Porsenna gli ostaggi.
Dinanzi al re Clelia si portò con tale fierezza da convincerlo a rimandarla dai suoi e a togliere definitivamente l’assedio. In seguito, a lei fu dedicata una statua equestre, la prima che in Roma sia mai stata dedicata ad una donna.
Ecco infine Caio Muzio Cordo, che temerariamente penetrò nell’accampamento nemico per uccidere lo stesso Porsenna. Purtroppo pugnalò la persona sbagliata e fu catturato dalle guardie, che lo condussero al cospetto del re. Qui, con intrepida fermezza, pose la mano destra su un braciere acceso e la lasciò ustionare, quale autopunizione per il fallimento dell’impresa. L’episodio impressionò a tal punto Porsenna che questi decise di intavolare subito trattative di pace, mentre Muzio prese da allora l’appellativo di “Scevola”, ossia mancino, col quale sarebbe divenuto celebre.
Ormai scampata la minaccia etrusca, anche a lui, come ad Orazio Coclite, il Senato romano concesse in premio un appezzamento di terra, ma nel caso di Muzio si volle conferire al gesto una particolare valenza simbolica: il podere doveva essere individuato in quella stessa area su cui Porsenna aveva a suo tempo posto l’accampamento. Qualcuno è giunto a dare anche una dimensione precisa all’appezzamento di terra: uno iugero, pari a circa 2.500 m². In ogni caso fu così che - da allora - quel piccolo comprensorio agreste in riva al Tevere divenne noto come “prati di Muzio” o anche “orti di Muzio”.
Proprio per la sua caratteristica rustica ed appartata l’oltretevere fu considerato per secoli quasi avulso dal resto dell’Urbe, tanto che solo in seguito alla riforma amministrativa voluta da Augusto esso formò la XIV Regione, i cui confini orientativi erano dati a nord dal Campo Vaticano, a est dal Tevere (compresa l’Isola Tiberina), a sud da Porta Portese, a ovest dal Gianicolo. In tal modo divenne pure la più estesa tra tutte le Regioni urbane, con il suo perimetro di circa 33.400 piedi (circa diecimila metri), come si legge nei Cataloghi Regionari. Il Tevere in effetti separava i due emisferi cittadini non soltanto in senso simbolico. Il territorio transtiberino fu chiamato anche Romilla (dal nome dell’antica gens Romilia) e il popolano che doveva recarsi al di là del ponte era solito dire - ancora a fine Ottocento - “ti saluto, vado dentro Roma”.
Poteva pure accedere che alcuni, soprattutto anziani, si vantassero che nella loro vita non avevano mai “passato ponte”, quasi che la confidenza con l’oltretevere recasse una sorta di contaminazione.
La sanguigna ed esasperata rivalità esistente fra trasteverini e dirimpettai del rione Monti (i “monticiani”), poi, non aveva riscontro tra nessun altro dei rioni romani. In effetti, oltre a scambiare spesso sassaiole con l’altra riva, il trasteverino sentiva di appartenere ad una élite urbana diversa, anzi ad una “romanità” perfino superiore a quella degli altri concittadini, in ciò forse corroborato dal fatto che - storicamente - il rione si riteneva abitato “dal più puro sangue latino, imperocchè in quella XIV regione di Roma i governanti per molto tempo non vollero che si aggregassero ad abitarvi altre genti” (cfr. Publio Barghiglioni - L’isola Tiberina e la regione trasteverina in “Il volgo di Roma”, a cura di Francesco Sabatini; Roma 1890).
Se tutto ciò non bastasse, anche il dialetto parlato a Romilla era un po’ diverso da quello in uso nel resto della città, anche se - a sua volta - l’idioma trasteverino constava in realtà di due ceppi: quello di Terra e quello di Ripa. Quest’ultimo si riferiva al linguaggio in uso nell’area attorno al porto di Ripa Grande e nella stessa isola Tiberina, “che è romanesco, ma pieno di termini e di modi marini”. Difatti i trasteverini di Ripa - sempre “a contatto coi navigatori dei velieri calabri e siciliani” - finivano con l’assimilarne alcuni modi espressivi, tanto che “la loro fantasia, piena sempre di Roma, accetta e rende immagini meridionali, ed ha famigliarità con le cose di mare” (P. Barghiglioni, ibidem).
Tornando all’argomento iniziale, quindi, l’area su cui sorge la Madonna dell’Orto si trova al centro dell’area gianicolense comprendente sia il pagus che le terre di Muzio Scevola. Il punto era davvero nevralgico, soprattutto per la sua posizione lungo il fiume: già punto di attracco per l’Emporium romano, divenne sede del porto di Ripa Grande nonché dell’Arsenale pontificio. Il porto fluviale, in particolare, fu per secoli uno snodo di fiorenti attività commerciali d’ogni tipo. Le merci (cereali, vino, olio, materiali vari, ecc.) arrivavano al porto di Ostia provenienti da tutto il mondo: lì venivano smistate e caricate su navigli più piccoli, i quali giungevano al porto di Ripa Grande trainati dai buoi lungo le rive. Peraltro, a poche decine di metri da Ripa iniziava il tratto urbano della via Aurelia (odierna via della Lungaretta), vitale arteria di collegamento col settentrione. Furono proprio numerosi operatori commerciali gravitanti attorno al porto che, alla fine del Quattrocento, si consorziarono dapprima per costituire la Confraternita in onore di Maria (1492) e poco dopo per iniziare la costruzione della chiesa sul luogo stesso dell’orto che aveva visto compiersi la guarigione del suo proprietario.