IL BEATO NAKAURA
Introduzione
Nel novembre 2008, a Nagasaki, furono beatificati ben 188 martiri giapponesi, tutti eroici testimoni della fede che offrirono la loro vita al Signore fra il 1603 ed il 1639, quando durissima fu in Giappone la persecuzione nei confronti dei cristiani. Erano persone umili, missionari, religiosi, ragazzi, anziani, ma anche intere famiglie.
In mezzo a quel foltissimo numero di nuovi Beati ce n’era uno che – come Arciconfraternita – ci stava e ci sta particolarmente a cuore. Era infatti un “nostro” amico di molti secoli fa e che proprio dalla Madonna dell’Orto ebbe salva la vita: senza tale intervento non avrebbe potuto poi svolgere in patria il fulgido apostolato per cui ancor oggi è conosciuto.
Ma a questo punto è bene cominciare dall’inizio, avvertendo il cortese lettore che - per motivi di spazio - dovremo operare una sintesi estrema dei fatti, i quali altrimenti occuperebbero interi volumi.
Un viaggio epocale
Una missione diplomatica partì dal Giappone nel 1582 su iniziativa di alcuni daimyo (signori feudali locali) convertiti al Cattolicesimo, la prima in assoluto nel suo genere. Ne facevano parte quattro giovanissimi nobili: capo della delegazione fu nominato ItōMancio in rappresentanza di Ōtomo Sōrin, affiancato da Chijiwa Michele, per le casate di Arima e Ōmura, e accompagnati da altri due giovani di alto lignaggio, Nakaura Giuliano e Hara Martino. A loro si aggiunse un piccolo gruppo di accompagnatori tra i quali ricordiamo il padre gesuita Diego Mesquita, che fu il loro interprete e ispiratore.
La missione divenne poi nota in Giappone come Tenshō shōnen shisetsu o anche come Tenshō Ken’Ō shisetsu. Fu un lungo viaggio trionfale per tutta Europa e soprattutto a Roma dove giunsero nel marzo del 1585 per soggiornarvi oltre due mesi nel tripudio generale: molti libri sono stati scritti su quel formidabile evento. Ma quello che più ci interessa qui è ricordare il miracolo dispensato dalla Madonna dell’Orto e che andiamo brevemente a riassumere.
Essendo impegnati in un fittissimo calendario quotidiano di impegni e sacre funzioni, il Papa volle un giorno offrire un po’ di svago e di frescura ai giovani ambasciatori (si era ai primi di giugno) mediante una gita sul mare al largo di Ostia. La delegazione andò ad imbarcarsi al porto fluviale di Ripa Grande, dove a pochi metri si trovava la chiesa di S. Maria dell’Orto. Fu detto loro che lì si custodiva una sacra immagine molto venerata dal popolo e così vi entrarono per una breve preghiera. Fatto questo, gli ambasciatori giapponesi e il loro seguito navigarono sul fiume per raggiungere il mare aperto. Per allietarne il ritorno, papa Sisto V mandò loro incontro delle piccole navi - più adatte alla navigazione fluviale - ornate con ricche vele, bandiere, insegne colorate e splendidi padiglioni. Su alcune di esse vi erano complessi musicali e vari cantori.
Ma giunti al mare e incontrati gli ospiti, proprio mentre si sta per dare inizio all’intrattenimento musicale ecco una furiosa tempesta che minaccia di far naufragare tutto e tutti. Fu in quel terribile frangente che gli ambasciatori si ricordarono della Madonna dell’Orto che avevano salutato da vicino prima di partire da Ripa Grande e la invocarono con gran fervore. Immediatamente fu il prodigio: cessò il vento all’istante, il mare si fece calmo come un lago, tutti furono salvi. Rinfrancati nel corpo e nello spirito risalirono il fiume cantando il Te Deum di ringraziamento.
Appena tre anni dopo, nel 1588, la Confraternita di S. Maria dell’Orto - divenuta da tempo fra le più importanti di Roma - venne elevata dallo stesso papa Sisto V (forse in onore e memoria del prodigioso evento) al rango di Arciconfraternita con la concessione di speciali indulgenze, mentre nel 1657 il Capitolo Vaticano conferì alla Madonna dell’Orto la corona d’oro di immagine autenticamente miracolosa.
In tema di documentazione storica del miracolo, è il romano Pietro Bombelli - proprio nella sua famosa “Raccolta delle Immagini della B.ma Vergine ornate della Corona d’Oro dal Rev.mo Capitolo di S. Pietro” (voll. 4; Roma 1792) – che giunto a quella di S. M. dell’Orto ci dà più ampi particolari, narrandoci come gli ambasciatori giapponesi e il loro seguito fossero scesi per il fiume per trascorrere una giornata in mare. Per allietarne il ritorno, il Papa mandò loro incontro “navicelli con ricche vele, bandiere e fiamme dorate a poppa ed a prua e coperte di splendidi padiglioni.
Vi erano i legni per le ambascerie e gli altri erano montati da musici e sonatori”.
Ma giunti in mare e incontrati gli ospiti, “mentre voglion cominciare le armonie, una furiosa tempesta gli minaccia di naufragio: alberi rotti, vele lacere, timoni infranti. In quel frangente tutti si ricordarono della Madonna dell’Orto che avevano salutato da vicino sul partire da Ripa. Tutti invocaronla e furono sul fatto esauditi. Cessò il vento, disenfiaron le onde, tornò la calma.
Cantarono allora il Te Deum rendimento di grazie e poi per lunghi anni al dì 8 di giugno anniversario del pericolo usarono di andare a quel santuario per cantar messa solenne in memoria della grazia ricevuta”.
Il racconto del Bombelli conferma quello che oltre un secolo prima aveva pubblicato Gasparo Alveri nella sua non meno famosa opera “Roma in ogni Stato” del 1664, dove, fra l’altro, troviamo la notizia che, ancora dopo ottant’anni da quell’evento “vengono in detta chiesa [S. Maria dell’Orto] ogni anno molti musici a cantarvi la messa di rendimento di grazie del pericolo da essi evitato nel 1585 allora che diversi cantori furono da Gregorio XIII [in realtà Sisto V, papa Gregorio era morto il 10 aprile – n.d.A.] inviati ad Ostia a incontrare gli ambasciatori giapponesi…”.
Prima di concludere la narrazione dell’evento, tuttavia, non ci sembra peregrino soffermarci brevemente – appena un tocco di penna – sul particolare significato simbolico del miracolo testé ricordato. Non siamo certo dei teologi, ma alcuni riferimenti alle Sacre Scritture ci sembrano di una evidenza incontestabile.
Per gli antichi il mare era il simbolo delle potenze del male e richiamava alle menti il caos primitivo. Dio, che è il solo Signore della creazione, ha il potere assoluto sul mare. Già nel Libro di Giobbe (XXXVIII, passim) troviamo un primo segno, allorché Dio stesso si rivolge al profeta per rimarcare “Chi ha chiuso tra due porte il mare […]? Poi gli ho fissato un limite […] e ho detto: Fin qui giungerai e non oltre, e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”. Ma è nei Salmi (CVI, 23-31) che è possibile trovare una descrizione che è sorprendentemente simile allo svolgimento dell’evento miracoloso. “Coloro che solcavano il mare sulle navi […] videro le opere del Signore, i suoi prodigi nel mare profondo. Egli parlò e fece levare un vento burrascoso che sollevò i suoi flutti. Salivano fino al cielo, scendevano negli abissi; la loro anima languiva nell’affanno. Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie. Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare.
Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed egli li condusse al porto sospirato”. Tutto esattamente come la flottiglia dei navicelli pontifici che, prima sbattuta dalle onde, ritrova poi la prodigiosa quiete dei flutti e risale il fiume fino a Ripa Grande cantando il Te Deum.
Infine, un’altra formidabile rappresentazione si trova nel Vangelo di Marco (IV, 35-41), allorché Gesù decide di andare sull’altra riva del lago con i suoi discepoli, seguito da altre barche. “Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero «Maestro, non t’importa che moriamo?». Destatosi, sgridò il vento e disse al mare «Taci, calmati». Il vento cessò e vi fu una grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare l'obbediscono?».
Come si vede, la struttura generale del racconto che si ricava dalle pagine delle Scritture è sorprendentemente simile a quella del miracolo “giapponese”: le imbarcazioni sono sorprese da una tempesta tanto improvvisa quanto violenta e i naviganti, smarriti di fronte a tanto pericolo, si rivolgono angosciati al Signore. Questi s’impietosisce e il fortunale cessa all’istante. Gli scampati a morte certa ringraziano quindi il Signore e lodano la Sua infinita potenza.
La simbologia insita nell’evento è talmente scoperta che è appena il caso di soffermarvisi schematicamente: assalito a sorpresa dalle forze del male, il fragile fedele è smarrito e minaccia di soccombere, ma rivolgendosi con piena fiducia al Signore ottiene la salvezza dell’anima. Nel nostro caso è Maria, “onnipotente per intercessione”, a farsi mediatrice con Dio e ad ottenere la salute del corpo e, con esso, dell’anima. Chi si rivolge a Lei non rimane mai deluso, esattamente come ne tesse la lode il Bombelli stesso quando afferma che Maria - venerata sotto il titolo «dell’Orto» - è appunto un “orto chiuso al serpe infernale non già alle anime dei fedeli, che tutti ama ammettere e far partecipi della sua munificenza”. La Madonna dell’Orto si offre quindi al fedele, in maniera del tutto esemplare, come sicuro riparo dalle tempeste della vita e nave di salvezza che conduce a Cristo.
Biografia di Giuliano Nakaura Jingorō S.J., “colui che fu a Roma”
Nacque intorno al 1568 nel villaggio di Nakaura, oggi parte del municipio di Saikai, nella prefettura di Nagasaki. Suo padre Kosasa Jingorō, signore del castello di Nakaura (da cui deriva l’appellativo), morì nel 1568 poco dopo la nascita di Giuliano. Questi, nel 1582, dopo appena due anni dal suo ingresso nel seminario di Arima, fu prescelto per far parte della legazione ufficiale in partenza per l’Europa.
Sbarcati a Lisbona e accolti trionfalmente a Madrid, giunsero finalmente e Roma il 22 marzo 1585. L’anziano Gregorio XIII, che li aspettava con grande felicità, decise però di riceverli il giorno seguente, mandando loro incontro a Porta Flaminia (odierna piazza del Popolo) il Padre Generale dei Gesuiti Claudio Acquaviva. Giuliano, che si era ammalato di malaria durante il viaggio, pregò vivamente di partecipare ugualmente all’udienza: già durante il lungo viaggio aveva sognato di poter vedere il Papa. Anzi, “Se mi conducono dinanzi a lui – diceva nel suo stentato latino ai medici che si opponevano – sono sicuro che guarirò”. Infine, vista la sua grande insistenza, si organizzò un breve incontro privato prima dell’udienza pubblica. Il vegliardo pontefice - che in quel ragazzo che bruciava di febbre e di entusiasmo vedeva il frutto delle sue premure per aprire collegi e seminari in diverse parti del mondo – lo abbracciò piangendo, mentre Giuliano rispondeva con le sue lacrime. Poco appresso papa Gregorio si ammalò gravemente, tuttavia - ancora nel medesimo giorno della sua morte (10 aprile 1585) – invitò a pregare per la salute del “giapponesino” che aveva accolto con tutto il suo cuore di padre.
Durante il soggiorno romano Giuliano visitò con i suoi compagni il noviziato di Sant’Andrea, pregando dinanzi alla tomba del giovane novizio Stanislao Kostka morto pochi anni prima.
La sua vita li impressionò tanto profondamente che quella stessa sera chiesero udienza al Padre Generale dei Gesuiti per informarlo che essi desideravano restare a Roma per entrare nella Compagnia di Gesù. Prudentemente, il P. Acquaviva suggerì loro in primo luogo di terminare la missione diplomatica e poi di consultarsi col P. Valignano che era il loro accompagnatore e consigliere. I ragazzi accettarono la risposta ma Giuliano aveva già preso la sua ferma decisione e in seguito la mantenne, pur di fronte a mille difficoltà.
Tornato a Nagasaki e portate a termine le ultime incombenze relativa all’ambasceria, nel 1591 Giuliano entrò nel noviziato della Compagnia ignaziana a Kawachinoura, nelle isole di Amakusa.
Terminata la prima parte dei suoi studi fu inviato a Yatsushiro, dove fra il 1598 ed il 1660 prese parte ad una campagna di evangelizzazione conclusasi bruscamente con la sconfitta a Sekigahara del daymio di Yatsushiro, Agostino Konishi Yukinaga. Andò allora a Macao, colonia portoghese nel sudest dell’India, per perfezionarsi in teologia e nel 1608, tornato in Giappone, fu ordinato sacerdote. Nel 1614, mentre gli altri partivano per l’esilio, Giuliano ricevette l’ordine di restare nascosto in Giappone.
Dal 1614 al 1626 Giuliano risedette nel territorio di Arima, dapprima a Kuchinotsu in una casa vicino al porto e poi a Kazusa nell’abitazione di un notabile locale, dove aveva pure una cappella clandestina. Da qui gestiva un ampio territorio “parrocchiale” ma una volta all’anno compiva una visita pastorale nelle varie località di sua pertinenza. Quando col passare degli anni la sua salute ebbe a declinare, risultandogli difficile se non impossibile il camminare, lo trasportavano in una cesta di bambù simile a quelle usate dai contadini per trasportare i prodotti della terra.
Fino al 1621 il minuscolo gruppo di missionari giapponesi in clandestinità nel territorio di Arima poté lavorare intensamente e in relativa tranquillità, poi cominciò un periodo di tribolazioni e persecuzioni. Infine, nel 1627, Giuliano si trasferì da Arima a Kokura: quelli che dovevano essere gli ultimi cinque anni di apostolato e della sua stessa vita si compirono nel 1632, quando fu catturato e inviato al carcere “Cruz-machi” di Nagasaki.
In prigione Giuliano incontrò vari conoscenti e altri se ne aggiunsero poi. E mentre costoro uno dopo l’altro andavano incontro al martirio, Giuliano fu invece trattenuto più di dieci mesi: essendo lui un personaggio molto noto, era logico che i persecutori cercassero con tutti i mezzi di indurlo all’apostasia. Ma il 18 ottobre 1633 si aprirono anche per lui le porte della prigione onde condurlo al martirio.
Non andava a morire da solo, ma assieme ad un gruppo di missionari domenicani e gesuiti. Seguendo lo stesso cammino che tre mesi prima avevano percorso altri gloriosi martiri fino alla collina Nishizaka, Giuliano si avviò con le mani legate dietro alla schiena e le gambe atrofizzate per l’infermità. Ma se il suo corpo era in grave decadenza, il cuore era però giovane tanto da fargli sop-portare le malattie e infondergli un gran coraggio: condotto al luogo dell’ esecuzione, davanti ai due governatori di Nagasaki desiderosi di godersi lo spettacolo, si presentò con fierezza pronunciando alcune parole che non davano luogo a dubbi e destinate a divenir famose: «Io sono il padre Giuliano Nakaura, quello che è stato a Roma».
Il martirio subito da Giuliano fu terribile. Per lui ed altri compagni fu applicato un nuovo tormento di raffinato sadismo: avvolto in un telo e legato stretto per limitare la respirazione, fu appeso per i piedi a testa in giù con la testa in una buca, avendo i suoi aguzzini procuratogli ferite alle orecchie affinché il sangue ne uscisse lentamente rendendo più crudele la sua agonia. Difatti Giuliano soffrì agonizzante per ben tre giorni fino al 21 ottobre. Un testimone udì le sue ultime parole, con le quali proclamava di sopportare quelle atroci sofferenze per amore di Dio.
Il suo corpo, come avvenne per gran parte dei martiri, fu cremato e le sue ceneri poste in un sacco di paglia, portate in barca fino all’imbocco della baia e lì rovesciate in mare. Una procedura, questa, che conferma il fatto che egli fu giustiziato in odio alla fede cristiana: né con i malfattori né con i traditori si adottava un tal metodo.
Nei documenti raccolti per la beatificazione si legge che Giuliano Nakaura non è solo un sacerdote martire ma anche una figura fortemente simbolica: emblema dello scambio culturale fra oriente e occidente; emblema del vincolo fortissimo che unisce la chiesa giapponese alla sede di Pietro; simbolo dei più alti e nobili ideali per i giovani e della fedeltà alla vocazione religiosa per i sacerdoti.
Ancora oggi Giuliano Nakaura è una figura molto popolare in Giappone: a lui sono stati dedicati libri, opere teatrali e cinematografiche, monumenti, omaggi vari.
Il ritratto del Beato Giuliano
Il quadro custodito nella chiesa di S. Maria dell’Orto è stato realizzato nel 2009 dalla pittrice giapponese Kazuko Mimaki, su commissione di S. Ecc. l’Arcivescovo di Nagasaki mons. Joseph Takami che lo ha poi generosamente donato al nostro Sodalizio. La pittrice, artista raffinata e sensibile, ha studiato a lungo la figura del Beato tanto da giungere ad affermare che egli è ormai per lei una specie di padre spirituale, di riferimento irrinunciabile.
L’impianto generale del quadro è stato in larga parte suggerito dal Camerlengo dell’ Arciconfraternita, peraltro su espressa richiesta della stessa autrice. Dunque Giuliano - pur essendo morto in età avanzata - è ritratto da giovane, ossia al tempo del suo favoloso viaggio in Occidente; la figura è “in maestà” ossia vista di fronte in quanto deve poter guardare negli occhi il fedele o anche il semplice spettatore. E’ anche l’atteggiamento fermo e impavido di colui che armato solo della sua incrollabile fede va incontro al martirio, peraltro rappresentato dalla classica palma impugnata nella mano destra.
Sullo sfondo, due immagini emblematiche che connotano la vicenda del miracolo. La prima è, ovviamente, la chiesa di S. Maria dell’Orto, che appare inondata dal sole nascente: era appena spuntata l’alba quando essa fu visitata dalla delegazione giapponese. Inoltre - poiché la chiesa è perfettamente allineata sull’asse est/ovest, secondo i più classici dettami dell’architettura sacra - la facciata rivolta verso est guarda in direzione di Gerusalemme (meta ideale terrena di ogni cristiano) nonché, andando oltre, proprio verso il Giappone sua terra natale e luogo per antonomasia del Sol Levante: in tal modo Giuliano, con lo sguardo fisso davanti a sé, contempla nel medesimo istante ben tre obiettivi di grande significato, mentre la chiesa gli sta alle spalle rappresenta anche iconograficamente la forza e protezione dispensata dalla Beata Vergine.
La seconda immagine sullo sfondo è quella del fiume Tevere con le sue tipiche barche, quindi lo scorcio di panorama che dovette offrirsi alla vista di Giuliano al momento di imbarcarsi al porto di Ripa Grande che - lo ricordiamo – a quel tempo distava poche decine di metri dalla chiesa.
Giuliano indossa un abito tradizionale giapponese dell’epoca, consono al suo rango patrizio, peraltro sottolineato da altri segni di distinzione onorevole: al collo, la gorgiera pieghettata tipica dei gentiluomini occidentali, che divenne accessorio “obbligato” di vestiario per gli ambasciatori durante la missione in Europa; al fianco, la corta spada wakizashi – detta anche “il segno dell’onore” – che normalmente si accompagnava alla più lunga katana; sempre alla cintura, un ventaglio in pregiata carta di riso, che nella più pura tradizione cavalleresca giapponese aveva una funzione sia di ornamento che - per via delle sue stecche rigide - di efficace arma di offesa/difesa.